La battaglia del Ponte di Goito


Nella primavera del 1848 si combattè la prima guerra per l'Indipendenza dell'Italia e Goito fu il teatro di due celebri combattimenti.
Il primo avvenne l'8 aprile e costituì il battesimo del fuoco dei bersaglieri, corpo istituito da Alessandro Lamarmora nel 1836. Lo scontro armato si tenne in quel di Goito perchè dopo l’insurrezione delle Cinque Giornate, gli Austriaci, cacciati da Milano, si erano attestati sul Mincio, linea d'acqua che univa Mantova e Peschiera, fortezze che con Verona e Legnago formavano il cosiddetto Quadrilatero.



In direzione del fiume marciavano dunque le due colonne dell’esercito piemontese che il 25 marzo era sceso in guerra contro l’Austria. Al comando della prima colonna vi era il generale Ettore De Sonnaz, che puntava a nord, su Monzambano, mentre la seconda colonna, guidata dal generale Eusebio Bava, si dirigeva a sud, verso Goito; in questa colonna vi erano i bersaglieri di Lamarmora. Goito era uno snodo cruciale verso Mantova e Verona e perciò le truppe austriache avevano posto il paese in stato di difesa e minato il ponte che univa le due sponde. L’obiettivo delle armate piemontesi era dunque occupare Goito e passare il Mincio.

Il piano di attacco elaborato da Lamarmora prevedeva una duplice manovra: il contingente del capitano Giuseppe Lions doveva penetrare nel paese e attaccare di slancio le barricate, mentre il contingente di Giuseppe Muscas doveva aggirare l’agglomerato urbano sulla sinistra, guadagnare il ponte, e assalire sul rovescio i nemici per impedire loro la ritirata.
Ricevuti gli ordini, Lions e Muscas partirono all'attacco, seguiti da un plotone di cavalleria e da un reparto delle Real Navi. I bersaglieri furono i primi ad attaccare gli austriaci che occupavano l'ingresso del paese.

Lamarmora, raggiunta a cavallo la colonna di Muscas, si mise alla testa della compagnia e, sguainata la sciabola, incitava i suoi soldati impegnati nel corpo a corpo per la conquista del ponte. In quel momento dalla riva opposta i temibili cacciatori tirolesi aprirono il fuoco e nella tempesta di piombo un proiettile colpì Lamarmora al viso, spezzandogli la mandibola.
Il colonnello cadde da cavallo e subito uno Schutzen lo aggredì per farlo prigioniero, ma Lamarmora, facendo appello a tutte le sue forze, lo abbattè con un fendente. Nel medesimo istante s’udì un tremendo boato: il ponte era saltato in aria.



Soccorso dai portaferiti e messo al riparo di un muretto, Lamarmora veniva intanto assistito dal tenente medico Gaetano Lay, che lo rincuorava: il fondatore dei Bersaglieri benché ferito seriamente non era in pericolo di vita. Diradatosi il fumo dell’esplosione, si vide che il parapetto e alcune arcate del ponte erano rimasti intatti e un esile lembo della struttura univa ancora le due sponde. Decisi a vendicare il loro comandante, i bersaglieri, seguiti dai fanti delle Real Navi e della Brigata Regina, si gettarono nell’impresa, appoggiati da un solo pezzo di artiglieria.

Il primo a lanciarsi sulla spalletta fu il bersagliere Giuseppe Guasconi di Stradella. Lo seguì un altro bersagliere, il giovane sottotenente Demetrio Galli della Mantica che uscito allo scoperto, alla testa del suo plotone, fu colpito mortalmente al petto dalla fucileria nemica e cadde nelle acque del Mincio. È lui il primo ufficiale morto per l'indipendenza d'Italia. Scossi dalla reazione nemica, i bersaglieri si arrestarono un attimo, ma l’iniziativa fu subito ripresa dal capitano Saverio Griffini, bersagliere volontario che, assunto il comando del reparto, con ardimento attraversò il ponte e con i suoi raggiunse incolume l'altra riva. L'azione di Griffini rianimò i piemontesi i quali, trascinati dal suo esempio, si riversarono sull’altra sponda riuscendo a catturare decine di nemici. I bersaglieri, che avevano aperto la via alla vittoria, la sera furono i primi a sventolare la bandiera tricolore oltre il Mincio; in tanta gloria erano riusciti, come accade solo ai migliori soldati, a contenere le perdite: un morto e otto feriti.

Il generale Bava nel suo rapporto, redatto al termine di quella indimenticabile giornata, scriveva: “Questo primo e splendido fatto d'armi contro le migliori truppe austriache, condusse in nostro potere cento prigionieri ed un cannone, soddisfece pienamente S. M. che degnavasi venire in persona sul luogo a premiare i più valorosi ».

 


La battaglia del 30 maggio 1848


Il secondo combattimento di Goito fu quello di fine maggio. Il 27 maggio Radetzky uscì da Verona diretto verso Mantova. Per raggiungere il capoluogo virgiliano fece un giro largo, marciando a sud, in modo da aggirare le posizioni sarde a Villafranca. Giunto a Mantova la sera del 28 maggio Radetzky si accampò a San Giorgio. Il 29 fece avanzare 20mila uomini (19 battaglioni, 2 squadroni e 52 cannoni) verso Curtatone e Montanara, località presidiate dal contingente toscano formato da 6 mila uomini e munito di soli 3 cannoni. I Toscani offrirono una strenua e inaspettata resistenza (166 morti, 510 feriti e 1.186 prigionieri), che costò agli Austriaci ben 1.000 fra morti e feriti e, soprattutto, diede il tempo all'esercito piemontese di concentrarsi su Goito.
Dopo Curtatone e Montanara, l'esercito austriaco rallentò la marcia e si fece prudente. Nella circostanza Radetzky commise due fondamentali errori: inviò 12.mila uomini del II Corpo in una lunghissima e inutile manovra aggirante, sulla direttrice Rodigo-Ceresara, sottraendoli in tal modo alle forze in campo; procedette con ritardo tale da giungere a Goito solo alle tre del pomeriggio del 30 maggio.
Il ritardo aveva, infatti, permesso a Carlo Alberto di prepararsi alla manovra aggirante preparata dal Radetzky, concentrando su Goito 23mila uomini.
La difesa di Goito era un imperativo per i sardo-piemontesi, tenuto conto che un eventuale arretramento avrebbe compromesso il transito sul Mincio, tagliando fuori l’intera metà dell’esercito sulla sinistra del fiume ovvero tutte le posizioni conquistate nell’ultimo mese.
Lo schieramento era stato completato a mezzogiorno, e da Goito andava alla frazione di Cerlongo, in direzione di Brescia, con alle spalle il nodo viario di Volta, circa 7 km più indietro.
Il tardivo riconoscimento della necessità di mantenere quella posizione strategica aveva tuttavia permesso di raccogliere solo una parte delle truppe potenzialmente a disposizione. Bava mise insieme 21 battaglioni, 23 squadroni e 56 cannoni. Ovvero poco più di 23mila uomini, tutti del 1° corpo, e della divisione di riserva. Mancava all’appello la brigata Regina, 2 dei 5 battaglioni della brigata Cuneo, tre dei cinque battaglioni della brigata Acqui, che non fecero in tempo a raggiungere il campo di battaglia. Mancava, inoltre, l’intero 2° corpo del di Sonnaz, schierato all’assedio di Peschiera ed alla protezione del fronte settentrionale. Si trattava, insomma, di poco più della metà dell’esercito che Carlo Alberto aveva portato alla campagna.



Le truppe vennero fatte marciare da nord verso Goito, man mano che le esplorazioni confermavano l’assenza di avanguardie austriache, attardate, come si è visto, a Curtatone.
Giunta in loco, venne divisa in cinque gruppi principali:
• all’estrema destra due dei tre reggimenti di cavalleria, insieme a molti bersaglieri, ad evitare eventuali tentativi di aggiramento
• a destra, su Cerlongo, stava la brigata Cuneo (solo 3 dei 5 battaglioni)
• a sinistra, sino a Goito, stava la brigata Casale, sostenuta dalla brigata Acqui (solo 2 dei 5 battaglioni) un piccolo battaglione napoletano
• all'estrema sinistra Goito era occupata da due battaglioni, fortificata e protetta da numerosa artiglieria, e veniva ad appoggiarsi al fiume.
• in seconda linea, sulle alture dette ‘dei Somenzari’, la brigata Aosta, la brigata Guardie e una forte riserva d'artiglieria.



Si trattava di tutto ciò che il Bava era riuscito a richiamare. Ma non sarebbe stato sufficiente se Radetzky avesse portato tra Goito e Cerlongo l’intero esercito che si era trascinato da Verona, aggiunto ai 7 battaglioni di Mantova: in totale fuori Mantova aveva a disposizione 37 battaglioni, 27 squadroni ed 88 cannoni: sino a 44mila uomini contro 23mila. Si trattava, insomma, di circa i 2/3 dell’esercito del feldmaresciallo, contro poco più della metà dell’esercito che Carlo Alberto.
Ma quando l’esercito austriaco si presentò di fronte al Bava ed a Carlo Alberto era composto solo dal I Corpo del Wratislaw, rinforzato di alcune unità del II Corpo e seguito dalla divisione di riserva del Wocher. In tutto, probabilmente, 29mila uomini.

 


Il resto, 12mila uomini, affidati al d'Aspre, si erano incamminati sulla lunga strada per Rodigo - Ceresara, mirando ad aggirare le linee sarde sulla direttrice Ceresara – Guidizzolo.
Manovra che non avrebbe mai raggiunto l’obiettivo. Il 30 maggio Carlo Alberto, dal suo punto di osservazione sulla collina detta ‘dei Somenzari’, vide arrivare le truppe del Wratislaw che marciavano lungo la direttrice Sacca-Goito.
Giunte in prossimità del punto di attacco, le colonne si arrestarono, vennero raggiunte dalla retrovia d’artiglieria e cavalleria ed impiegarono molto tempo per schierarsi sul terreno intricato di colline e coltivazioni.
L’assalto iniziò molto tardi, verso le 15.00, contro la sinistra del Bava, appoggiata su Goito. Venne annunciato da un nutrito fuoco d'artiglieria, ben risposto dai 14 pezzi dei difensori. Il Bava staccò truppe dal centro e fece passare sulla riva sinistra del Mincio un battaglione con quattro pezzi e prendere il nemico di fianco. In tal modo l'attacco austriaco venne cinque volte ripetuto e cinque volte respinto.



Poco dopo cominciò anche l’assalto delle brigate Wohlgemuth e Strassoldo alla destra sarda. La linea difensiva piemontese cominciò a vacillare e alcuni battaglioni della brigata Cuneo presero a ripiegare. Gli Austriaci giunsero ad impadronirsi delle prime case di Cerlongo.
A quel punto l'artiglieria sarda, dalle retrovie, venne posta in batteria e sostenne la fanteria con un nutrito fuoco di sbarramento, arrestando l’avanzata austriaca. La brigata Aosta, posta in seconda linea, fu mandata a tappare la falla, e recuperò terreno. Intervenne anche l’Aosta Cavalleria ed il Nizza Cavalleria, all’inizio della battaglia schierate sul centrale poggio ‘dei Somenzari’, accanto ai Carabinieri a cavallo.
L’azione consentì di interrompere il tentativo di aggiramento del Radetzky, e porne le avanguardie sulla difensiva.
Venne, quindi, l’ora del contrattacco. Vittorio Emanuele, erede al trono e Duca di Savoia, condusse la brigata Guardie (l’ultima riserva) verso il fronte: quella marcia intercettò la fuga della brigata Cuneo, che venne arrestata e riorganizzata. Riannodate le fila le due brigate, verso le 18’00, contrattaccarono il centro e l'ala sinistra del feldmaresciallo: le fecero indietreggiare per poi caricarlo alla baionetta, gettarlo nello scompiglio e costringerlo ad un precipitoso dietro-front. Vittorio Emanuele guidò personalmente all'assalto la brigata Guardia, rimanendo lievemente ferito. Nel combattimento si erano distinti anche i bersaglieri delle compagnie del Lions, Cart e De Biller.
Verso le 18.30, dopo tre ore e mezzo di combattimento, Radetzky ordinò la ritirata, riconoscendo la la sconfitta: nessuna notizia dal d’Aspre (attardato lungo la strada tra Ceresara e Solarolo), la destra sfondata, il tentativo di aggiramento della linea Goito-Cerlongo definitivamente fallito. Il Maresciallo aveva perso la battaglia, poiché aveva commesso un grave errore di condotta strategica: pur disponendo di forze sovrabbondanti, ne aveva impiegato una parte rilevante in una fallimentare, quanto ridondante, diversione.
Carlo Alberto aveva vinto la terza battaglia, su tre combattute. Bava aveva confermato il successo di Santa Lucia, come il di Sonnaz aveva vinto a Pastrengo. I Toscani a Curtatone avevano dimostrato grande ardimento e resistenza.
La battaglia di Goito del 30 maggio ebbe conseguenza strategica una assai rilevante: Carlo Alberto aveva interrotto la grande manovra del Radetzky e la liberazione di Peschiera dall’assedio era fallita.
Non solo il grosso dell’esercito non era riuscito a risalire il Mincio, ma, pure, una colonna di soccorso (colma di vettovaglie) scesa da Rivoli Veronese e forte di ben 6mila uomini era stata bloccata dai Sardi a Calmasino. Il fatto che tale combattimento sia avvenuto il 29, in coincidenza con gli scontri di Curtatone, testimonia sia della fretta del Radetzky, sia di una certa disarticolazione dei comandi.
Quel giorno stesso, prima ancora che si cominciasse a sparare a Goito, la guarnigione di Peschiera si arrese. Si consegnarono 1.600 uomini, 150 cannoni e una gran quantità di polvere e di proiettili. Ciò che portava il saldo generale della ‘grande manovra’ decisamente all’attivo di Carlo Alberto.
Infatti sul campo di Goito, mentre cominciava la ritirata austriaca, un corriere inviato dal Duca di Genova recò la notizia della resa di Peschiera, e per tutto il campo i soldati presero a gridare: ‘Viva il re d'Italia’.



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